Il delfino fra i calanchi
Racconto di Simone CASATI
Il mare, un'immensa e sconfinata massa
d'acqua. Il tempo, milioni di anni. Il destino, la predeterminazione
fatale dell'accadere, il succedersi degli eventi al di sopra dell'umana
capacità di volere e potere... quanto si potrebbe parlare di tutte
queste cose. Dalle imponenti montagne, all'infinitamente piccolo, sin
dall'alba dei tempi, tutto possiede storia e destino. Ogni cosa o
essere vivente segue il suo percorso inesorabile, il tempo scorre
inarrestabile, gli organismi vivono, muoiono, si perdono, ma talvolta,
le circostanze fanno sì che destini lontani s'intreccino anche dopo
35.000 secoli. In ogni modo, niente avviene mai per caso! Una domenica
mattina, Marco Zanaga ed io, come avevamo fatto molte volte in passato,
decidemmo di fare un giro tra le colline senesi. La nostra meta erano
alcuni calanchi argillosi pliocenici di origine marina. Il motivo
principale della nostra uscita si basava sulla ricerca di alcuni resti
fossili, in particolare, dei denti di squali vissuti in quel lontano
mare preistorico. Durante il Pliocene, infatti, nel momento di massima
espansione del Mediterraneo, molte zone della provincia di Siena erano
invase dalle acque. In quel periodo, in Toscana, geograficamente ben
diversa dall'attuale, le terre emerse erano probabilmente costituite da
una moltitudine di isolotti; questa morfologia, associata a un clima
tropicale, aveva favorito una notevole biodiversità marina animale e
vegetale. Sono trascorsi oltre tre milioni di anni e oggi il paesaggio
è notevolmente cambiato: una minima parte di ciò che visse in quelle
masse d'acqua, adesso è visibile a tutti nei campi coltivati e negli
affioramenti con scarsa vegetazione. Girando per le campagne, dove una
volta c’era il mare, non è raro imbattersi in resti di pesci,
conchiglie e con una buona dose di fortuna è possibile scoprire
qualcosa di più importante. Organizzammo l'uscita durante la settimana
e quella mattina, molto presto, partimmo armati della solita voglia di
scoprire cose nuove. Dopo quasi due ore arrivammo sul posto: era molto
presto. Scendemmo di macchina e dissi a Marco: "Oggi mi accontenterei
di trovare un bel dente di Isurus oxyrinchus" uno
squalo dai denti robusti e molto appuntiti. Non trascorse neppure
mezz'ora che ciò che avevo sperato si materializzò davanti ai miei
occhi: era esattamente come lo avevo immaginato! Un bel dente,
veramente bello e ben conservato.
Chiamai Marco per avvisarlo del
ritrovamento. Passato il momento di contenuta euforia, continuai a
cercare. Per meglio comprendere quello che sarebbe accaduto da lì a
poco, dobbiamo fare un salto indietro di un anno. L'anno prima,
infatti, ci trovavamo nel medesimo sito, una piccola spianata
argillosa. Giunto nella parte bassa dell'affioramento, notai un disco
intervertebrale e un dente di un cetaceo: probabilmente una Stenella.
Raccolsi i due reperti e setacciai attentamente tutto il perimetro, ma
non trovai altro! In quella occasione cercai di capire come fosse
possibile trovare due parti, probabilmente di unico animale,
anatomicamente distanti, senza trovare altre tracce. Per un anno, dopo
ogni pioggia, sono tornato in quel punto senza trovare nessuna traccia
che mi conducesse al resto dello scheletro. In ogni modo, ci ho sempre
creduto e ho coltivato la speranza sino alle otto e trenta di quella
mattina circa un anno dopo la scoperta iniziale. Giunto nuovamente
sull'affioramento detti una rapida occhiata, mi fermai e senza
calpestare il terreno, chiamai subito Marco, il quale dopo pochi
istanti saltò fuori da un cespuglio chiedendomi cosa avessi
trovato."Indovina!" risposi io. In un primo momento, l'immagine che ci
si prospettò davanti non fu del tutto chiara: dal sito, infatti,
affioravano vertebre, dischi intervertebrali, frammenti di coste e
circa sessanta denti sciolti di quello che sembrava essere un delfino!
Non credevamo ai nostri occhi e non sapevamo spiegarci il perché ci
fosse una concentrazione così elevata di denti. Non smettevamo di
guardarci in faccia per la contentezza e l'incredulità poi ci rendemmo
conto che era giunto il momento di metterci seriamente a lavoro. Prima
di tutto dovevamo capire come erano disposte le ossa, da dove
provenivano e perché c'erano così tanti denti senza la presenza del
cranio. Scattammo le prime foto. L'affioramento era molto piccolo,
pertanto fu facile osservare ogni centimetro di sedimento. Partendo dal
basso, raccogliemmo e catalogammo ogni minimo frammento. Giunti in
prossimità della massima concentrazione di denti, notai un piccolo
frammento osseo di color marrone-rossastro che affiorava minimamente
dal sedimento: aveva le caratteristiche di una piccola punta, era
fratturata in quattro parti e la sua inclinazione affondava
nell'argilla. Finimmo di raccogliere tutte le parti esposte e ci
dedicammo a scoprire la parte misteriosa. Fortunatamente
avevamo con noi del consolidante, due coltellini, un cacciavite a
stella, un piccone e tutta la giornata a disposizione. Iniziammo a
scoprire e consolidare quelle parti terribilmente fratturate:
centimetro dopo centimetro, il nostro oggetto misterioso stava
iniziando a prendere forma. Presto fu tutto chiaro, ciò che stava
lentamente tornando alla luce, era con certezza il cranio di un cetaceo
anche se, al momento, non v'era traccia delle mandibole. Il tempo
scorreva inesorabile e gli attrezzi a nostra disposizione non
permettevano che l'operazione di recupero procedesse speditamente.
Scoprimmo completamente la parte superiore del cranio facendo
subentrare il problema più grande: era domenica, i negozi erano chiusi
e dovevamo trovare molte cose. Lasciai Marco sul posto, presi la
macchina e scesi in paese alla ricerca dell'occorrente. Erano circa le
13, non c'era anima viva. Dopo qualche minuto mi accorsi che non avrei
trovato nessun negozio aperto, allora mi feci coraggio e provai a
cercare il necessario nei casolari nella zona. Moltissimi tentativi
andarono a vuoto, finché non giunsi nel piazzale di una casa; dopo aver
spiegato cosa mi era successo e di cosa avevo bisogno, una signora
molto gentile mi dette un lenzuolo di cotone a fiori, dell'acqua, un
secchio vuoto e alcuni vecchi giornali. Prima di andare via mi disse
che avrei trovato il gesso presso una fattoria poco distante: mi
diressi sul posto, ma non trovai niente. Sconsolato, tornando verso
l'affioramento, dove mi stava aspettando Marco, notai una casa in
costruzione: "cosa non si farebbe per la scienza!" dissi tra di me,
sperando che il padrone della casa avesse compreso la vitale importanza
che quei due chili di gesso avevano assunto in quel preciso momento.
Anche se non rientra nel mio stile, mosso da circostanze di forza
maggiore, presi il gesso necessario e tornai da Marco. Sopraggiunto sul
posto, mi accorsi che le sue mani erano martoriate dalle vesciche:
aveva scavato ininterrottamente con il cacciavite e tutti i suoi sforzi
avevano portato alla scoperta di una buona parte del cranio. Eravamo,
tuttavia, lontani dalla fase che ci avrebbe portato al distacco, il
lavoro sarebbe stato ancora molto lungo. Lasciai riposare Marco e
iniziai a scavare io. Dopo circa quaranta minuti, avevamo isolato
perfettamente il cranio, il pezzo era pronto per essere ingessato.
Erano Quasi le 15 e dopo una giornata di duro lavoro, stavamo entrando
nell'ultima delicata fase: prima di tutto tagliammo il lenzuolo in
tante piccole strisce di un metro per 10 cm circa, bagnammo vecchi
giornali e li adagiammo sul reperto (la carta bagnata aderì
perfettamente al reperto, questo garantì una superficie di separazione
fra le successive bende gessate e le ossa). Preparammo il gesso, non
troppo denso, e ci immergemmo le bende. In seguito, con un sincronismo
e un'esperienza da fare invidia a due ortopedici, iniziammo ad
ingessare il blocco di argilla. Marco velocemente preparava e mi
passava le bende e io ingessavo, era gennaio: avevamo le mani
congelate! Non dimenticherò mai, Marco quel giorno, aveva
"furbescamente" indossato un golf di cashmere regalato dalla moglie,
inutile dire come si fosse ridotto... credo che la sua signora ci abbia
rammentato più volte! Finita l'operazione, ci accorgemmo che
avevamo finito tutta l'acqua e non sapevamo come lavarci le mani,
fortunatamente, trovammo una pozzanghera: ci arrangiammo con quella.
Lasciammo trascorrere una quarantina di minuti e facemmo il distacco:
il gesso, nel frattempo, si era seccato perfettamente. A quel punto,
dovevamo trasportare tutto alla macchina, assicurarci di non lasciare
troppi indizi del nostro passaggio: per non incuriosire eventuali
cercatori non autorizzati. Ripulimmo accuratamente la zona dello scavo
e iniziammo a caricarci pesantemente. Il reperto pesava circa una
ventina di kg e la macchina si trovava a circa cinquecento metri di
strada sconnessa: vi assicuro che arrivarci non fu uno scherzo! Ci
fermammo più volte! Adagiammo il blocco sul sedile
posteriore dell'auto e partimmo con la speranza che l'operazione di
recupero non si sarebbe conclusa in una sola volta. Per nostra fortuna,
il recupero si svolse nel migliore dei modi. Avevamo proceduto alle
operazioni richieste dalla situazione ignari della vera entità di
quello che ci era capitato tra le mani; era troppo presto per dire con
cosa avevamo veramente a che fare! Giunti a Firenze, decidemmo di
lasciare il blocco e gli altri reperti nel garage di Marco e una volta
a casa, non potei fare a meno di raccontare a mia moglie di quella
splendida giornata. La mattina seguente, scrissi subito alla
Soprintendenza Archeologica Toscana, contattai il Museo fiorentino
(sez. Geologia Paleontologia Università di Firenze) per metterli al
corrente del ritrovamento. Conoscendo la nostra professionalità e
l’associazione di cui facciamo parte, non esitarono nel concederci il
restauro e la detenzione del reperto. Nel tardo pomeriggio, mi diressi
da Marco. Dovevamo allestire un laboratorio di restauro in piena
regola, infatti, da quel momento in poi, iniziammo a stilare una lista
del materiale occorrente: sacchi di sabbia da un kg per calzare e
disporre correttamente il reperto, una fresa, per tagliare le bende
gessate, del consolidante, dell’acqua, delle spugne e svariati
strumenti da restauro. Molti di questi furono costruiti per
l’occasione. Recuperammo tutto l’occorrente e ci mettemmo al lavoro.
Iniziammo col posizionare i sacchi sul tavolo e ci adagiammo il blocco,
in seguito tagliammo le bende gessate. L’operazione non fu molto
semplice: avevamo dei dischi a taglio molto piccoli, in ogni modo,
riuscimmo ad aprirlo senza traumi. Alzammo il coperchio di gesso con lo
stesso entusiasmo di un bambino mentre apre l’uovo di Pasqua, ma
contrariamente a quel bambino, invece di prendere, dovevamo mettere
tutto il nostro impegno, non potevamo più tirarci indietro. Le ossa
erano in connessione, ma terribilmente fratturate.Per quasi due ore,
lentamente, iniziammo a ripulire e consolidare tutte le parti esposte.
Verso l’ora di cena, ci salutammo dicendo che ci saremo rivisti il
giorno seguente. La sera stessa, mentre mi trovavo a casa, ricevetti un
sms da Marco che diceva: "Ti bastano ventisei per parte?". Non capivo o
forse, più semplicemente, non volevo credere a quelle parole; Marco,
infatti, dopo cena, era tornato in laboratorio e aveva scoperto le due
mandibole con i denti ancora fissati negli alveoli, queste si trovavano
perfettamente adagiate sotto il cranio. A quel punto, la situazione fu
perfettamente chiara: avevamo il cranio praticamente completo di un
cetaceo. Immaginate cosa sognai quella notte! Il giorno seguente, al
termine della consueta attività lavorativa, mi recai a vederlo. Le ossa
si intravedevano quasi tutte e quei denti aguzzi lo facevano sembrare
un coccodrillo. Marco aveva effettivamente scoperto le due mandibole,
queste, fortunatamente, si trovavano ancora in connessione anatomica
con il cranio. In quella occasione, erano presenti il Coordinatore del
Museo Paleontologico fiorentino e il presidente del Gruppo AVIS
Mineralogia Paleontologia Scandicci. Da
quel momento in poi, partecipò al restauro l’amico Franco Gasparri,
appassionato di Paleontologia nonché socio del Gruppo AVIS. Fu,
inoltre, coinvolto dal Museo fiorentino un esperto di odontoceti
fossili, il dott. Giovanni Bianucci, ricercatore presso
il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa.
Franco, Marco e io, svolgendo orari di lavoro diversi, ci alternavamo
al lavoro di restauro del cetaceo, ci sentivamo, pertanto,
telefonicamente e ognuno sapeva cosa fare! I giorni successivi
trascorsero fra il nostro vero lavoro e quello di restauro. Ricordo
soltanto che in laboratorio non c’era riscaldamento e fuori faceva un
freddo micidiale: aveva nevicato in quasi tutta Italia. Verso la fine
della settimana, ricevetti la telefonata della dott.ssa Archeologa
Gabriella Barbieri (Ispettrice di zona) e in quella occasione, la
informai sugli sviluppi del restauro. Parlammo anche del successivo
recupero del fossile. Tutto procedeva per il meglio, ma non dovevamo
scordare che lo scavo aveva bisogno di un altro sopralluogo, infatti,
il sabato, insieme al Coordinatore dott. Menotti Mazzini, ci recammo
sul posto, stavolta, senza l’inseparabile Marco, recatosi in Germania
per motivi di lavoro. Partì carico d’entusiasmo, proprio
quella mattina. Lui viaggiava verso nord e noi visitammo il sito. Alla
fine del sopralluogo, quando lasciammo il posto, Menotti e io, ci
accorgemmo di un paesaggio molto inquietante: le montagne circostanti
erano minacciosamente coperte di neve. Marco restò in Germania per
circa una settimana e rientrò a Firenze il venerdì successivo, trovando
il pezzo molto cambiato: avevamo lavorato per molte ore. La mattina
seguente, Marco, Franco e io, partimmo per effettuare lo scavo. Avevo
preparato il necessario durante la settimana, questa volta, c’era tutto
e di più! Giungemmo sul posto verso le 7,30, faceva un freddo da era
glaciale! Iniziammo a ripulire lo scavo dai detriti e iniziammo a
sbancare. Poco dopo, nel punto dove avevamo recuperato il cranio, ma ad
una altezza superiore di trenta centimetri, comparvero le prime
frammentarie ossa. Fotografammo dettagliatamente, mentre dall’argilla
iniziava a prendere forma una parte ossea abbastanza consistente.Si
trattava della base del cranio, parte della calotta e alcune vertebre
cervicali. Il cranio, in tempi remoti, non quantificabili, aveva subito
una frattura nella parte posteriore, questa aveva fatto scivolare a
valle, di circa trenta centimetri, la parte anteriore. In ogni modo,
eravamo riusciti a trovare le due parti. Lavorammo tutto il giorno,
recuperammo le parti e ci assicurammo che non ci fosse nient’altro.
Durante quella giornata, la temperatura si portò intorno a zero gradi:
indovinate cosa accadde? Facemmo in tempo a prendere tutto e
scappammo mentre i fiocchi di neve imbiancavano tutta la vallata. Anche
in quella occasione, per fortuna, tutto si era svolto nel migliore dei
modi. Portammo i pezzi al laboratorio e la mattina del giorno seguente
contattammo l’esperto di Pisa. Nel pomeriggio dello stesso giorno,
mosso da irrefrenabile curiosità professionale, ci venne a trovare.
Giunto sul posto, iniziò con l’esaminare e fotografare il reperto,
senza lasciar trasparire ogni minima sensazione, ma gli si leggeva
perfettamente in faccia il suo stato emozionale, infatti, dopo qualche
istante non resse e ci disse: "Finalmente qualcosa di nuovo!". Le sue
parole successive furono: "Erano più di cento anni che non veniva
scoperto, in Toscana, un fossile di odontoceto così importante".
Per capire il nesso di questa
scoperta, bisogna fare un salto indietro di oltre cento anni. Nel 1876
il naturalista Roberto Lawley, nel suo articolo "Nuovi Studi sopra ai
pesci ed altri vertebrati fossili delle colline toscane", descriveva
una nuova specie fossile di delfino, sulla base di alcuni frammenti di
crani rinvenuti nei sedimenti pliocenici delle Colline Pisane. Lawley
dedicò questa specie ad un amico, Alberto Giuli e la chiamò "Delphinus giulii".
Studi relativamente recenti, effettuati dallo stesso Giovanni Bianucci
di Pisa, hanno corretto la determinazione di Lawley: la specie rimane
valida ma il genere alla quale va riferita è Stenella e, pertanto, la
nuova combinazione è "Stenella giulii". Ma cosa c'entra questo delfino con
questa scoperta? Il nesso sta nel fatto che il reperto fossile trovato
appartiene proprio alla specie originariamente descritta da Lawley.
Eravamo davanti, dopo più di cento anni, ad un nuovo e più completo
reperto di questo delfino che solcava i mari oltre tre milioni di anni
fa. La scoperta appare ancora più eccezionale se si considera un grande
paradosso dovuto alla frammentarietà del record fossile: i delfinidi,
attualmente i cetacei più diffusi nei mari, hanno avuto origine circa
10 milioni di anni fa ma stranamente sono rarissimi allo stato fossile
e i reperti trovati fino ad oggi sono quasi tutti localizzati in
Italia. Ogni nuova scoperta è quindi un tassello prezioso per
ricostruire la storia di questi cetacei e per capire la loro grande
diversificazione. Così il ritrovamento di questo delfino fossile si
affianca ai pochi altri (si contano sulle dita di una mano) avvenuti in
Toscana in un passato ormai lontano. Ma adesso torniamo a quel pomeriggio.
Bianucci scattò molte foto e osservò minuziosamente il blocco di
argilla contenente la base del cranio, recuperata durante la seconda
fase di scavo. Indicando due cavità spiegò che sotto di esse si
sarebbero dovute trovare le due bulle timpaniche e i periotici (le
bulle timpaniche e periotici, sono ossa uditive che si trovano
all’interno dell’orecchio dei cetacei). La loro scoperta avrebbe
permesso l’identificazione certa del nostro delfino, dal momento che
ogni cetaceo possiede la sua inconfondibile forma. In ogni modo, anche
senza questi importantissime e diagnostiche parti, potevamo ritenerci
soddisfatti ugualmente. Ci sembrava già tanto aver trovato un cranio
intero. Bianucci continuò con l’osservare il reperto, discutemmo circa
le modalità di intervento su alcune parti ossee e decidemmo che il
reperto sarebbe rimasto sulla matrice. Data la sua fragilità, poteva
essere rischioso toglierlo completamente dall’argilla che lo
imprigionava. Il reperto sarebbe, infatti, stato più estetico, più da
museo, ma ciò ne avrebbe leggermente compromesso lo studio impedendoci
di osservare la parte ventrale del cranio. Trascorse un momento di
riflessione e riaffiorò alla mente di Bianucci il ricordo di una
precedente esperienza: Giovanni, qualche anno prima, aveva effettuato,
con ottimi risultati, alcune tac su crani di delfini fossili e attuali.
Soddisfatto dei precedenti risultati, propose di usare nuovamente
questa tecnica. Il problema a quel punto fu dove andare? Purtroppo
Giovanni, non poteva più servirsi della struttura che lo aveva ospitato
in precedenza: questo avrebbe richiesto tempi e procedure
interminabili. Avevamo l’idea, ma non sapevamo dove andare. Allora ecco
che in quel preciso istante si accese immediatamente la mia lampadina…
non è che io ritenga di essere un tipo geniale, però mi piace pensare
che l’uomo, quando ha l’idea giusta e la determinazione, al momento
giusto, riesca a risolvere molti, non semplici problemi. Presi il
telefono e chiamai la mia amica Fabrizia Petrucci, analista presso uno
dei più importanti ospedali fiorentini: "Ciao Fabrizia, sono Simone,
chiamo perché avrei bisogno di prenotare la tac al cranio di delfino
fossile" e mentre continuavo a parlare, dall’altra parte regnava il
silenzio totale. Alla fine del mio discorso, ci fu un momento di pausa,
credo che in un primo momento mi abbia preso per matto, io spiegai
ulteriormente la fondamentale importanza dell’esame, lei capì e mi
disse: "Ne parlo con chi di dovere e ti faccio sapere". Chiusi il
telefono, guardai i miei amici e dissi: "E’ fatta al 90%!".
Infatti, in seguito a precedenti
collaborazioni avute con l’Università fiorentina, la struttura
ospedaliera dette il suo favorevole consenso e dopo qualche giorno mi
chiamò Fabrizia per confermarmi l’esame. Ma perché era fondamentale
effettuare la tac sul reperto? Il confronto tra la sezione del rostro
di Stenella giulii e quella di un comune delfino attuale (Delphinus delphis) avrebbe permesso di stabilire un carattere inconfondibile fra i due generi. Il Delphinus presenta dei profondi solchi lungo tutta la parte ventrale del rostro, mentre nella Stenella
i solchi sono molto meno profondi e assenti nella parte anteriore. Poco
più tardi, salutammo Bianucci e i sessanta denti trovati nell’argilla
al momento della scoperta: questi, date le piccole dimensioni, vennero
fotografati a parte.
Il pomeriggio del giorno seguente, in
laboratorio, Marco iniziò a ripulire la base del cranio ed io il cranio
e dopo qualche istante, all’interno di una delle due cavità il suo
strumento urtò qualcosa di insolito: "Simone, vieni a vedere cosa c’è
qui dentro?" Per noi fu come vivere una scoperta nella scoperta, la
bulla timpanica e il periotico, si trovavano perfettamente alloggiati
in posizione naturale. Non contento, poco più tardi, ripulendo la
seconda cavità, trovò anche l’altra: a quel punto, chiamammo Bianucci e
lo informammo dei fatti. Lui si congratulò e ci dette dei consigli su
come separarle (bulla timpanica e periotico, sono ossa ben distinte, ma
spesso sono unite meccanicamente, pertanto, difficili da separare). In
ogni modo, seguimmo i suoi consigli ottenendo ottimi risultati. A
quel punto, il puzzle era quasi pronto: ci mancava soltanto la conferma
della tac per identificare con certezza la specie. Mentre noi
dedicavamo le nostre attenzioni al fossile, il gruppo AVIS, si era
mobilitato per costruire la teca che lo avrebbe ospitato in futuro. Il
restauro procedeva senza sosta, le ossa non avevano bisogno di
ulteriori interventi, ma la matrice che le sorreggeva, il cranio, era
molto fratturata, pertanto, adottai un sistema che avrebbe garantito
maggiore stabilità. Iniziai a praticare alcune iniezioni di polivinile
(famosissimo vinavil) all’interno delle fratture, con il poliuretano
spray, rifeci le parti di matrice mancanti, attesi il tiraggio del
materiale e lo modellai in armonia con il blocco di argilla.
Successivamente, acquistai delle garze, le tagliai a misura e le
spennellai con una soluzione, precedentemente preparata, di argilla e
vinavil. Attaccavo le bende e le cospargevo con il preparato. Questa
operazione, applicata su tutte le parti, garantì al blocco un’ottima
tenuta. A quel punto il fossile e la sua matrice erano pronti: mancava
soltanto la base di legno che lo avrebbe contenuto per sempre. Presi le
misure e la preparai! Trascorse qualche giorno e senza interferire con
le normali attività diagnostiche, ci presentammo alla fatidica tac con
tre crani di cetacei, due di questi, una Stenella e un delfino, non
erano fossili e furono appositamente prelevati per l’occasione dal
museo di Calci. La tac fugò qualsiasi dubbio, avevamo davanti un cranio
appartenente al genere Stenella, la mancanza di fosse
sulla parte ventrale, non lasciò dubbi! A quel punto, le teorie si
tramutarono in certezze: si trattava effettivamente di una Stenella giulii.
Successivamente informammo il Soprintendente e il Coordinatore del
Museo fiorentino, i quali si congratularono dicendosi soddisfatti del
nostro lavoro di squadra. Erano trascorsi circa due mesi di incessante
lavoro, quando finalmente mettemmo il fossile nella sua teca senza
neppure renderci conto dell’enorme sacrificio che avevamo concluso con
i nostri sforzi. Di fronte al delfino fossile, col cuore colmo di
soddisfazione, dissi a me stesso che, nonostante la fatica, avrei
rivissuto all’infinito questa magnifica esperienza! Probabilmente non conosceremo mai quali furono le reali cause di morte,
non sapremo mai se fu divorata dagli squali, o se morì per cause
naturali, ma una cosa è certa: la giovane Stenella, che ascoltò il
linguaggio dei suoi simili e vide l’azzurro del cielo oltre tre milioni
di anni fa, oggi, grazie all’impegno del Gruppo AVIS, può rivedere
quella luce e percepire suoni, di mammiferi eretti, a lei sconosciuti,
che, mentre lei moriva, vedevano sorgere l’alba dell’umana esistenza.
Un
fossile può rivivere soltanto se visibile a tutti!
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